Francesca non è pittrice tradizionale. Man mano che la sua tecnica si è affinata, i materiali sono diventati sempre più importanti. Ecco i frammenti di metallo, corrosi dalla ruggine, installati su fondali ammorbiditi da pastose pennellate di colore e semmai resi preziosi da forti cromatismi, come il rosso, l’azzurro, l’oro.

Un’artista materica, dunque, che colloca la propria materia sul colore e nel colore. Ne è ben consapevole quando definisce ciò che per lei è “materico”, null’altro che «la collocazione di elementi all’interno di un campo visivo». Con ciò, ella si colloca agevolmente in una tradizione ormai insediata, che dai primi vagiti Dada ha toccato tappe di rilievo: per restare al solo campo italiano – senza scomodare il solito Tàpies – fasi che portano i nomi di Enrico Bay, Roberto Crippa e soprattutto Alberto Burri (il grande “dottor” Burri, maestro indiscusso dei materici tutti).

Con questi nomi alle spalle, non c’ è che da star tranquilli. Se però ascoltiamo ciò che Dorfles scrisse nei primi anni Settanta sullo stile materico, «un’arte che proprio dell’importanza conferita alla materia fa il suo primo privilegio», allora Francesca Mita non è una materica ortodossa: quel primo privilegio viene intaccato dalla volontà di indirizzare la materia a formare figure: infatti i suoi soggetti sono anche paesaggi, alberi, donne viste di spalle, figure però fuse nella materia, come per una sorta di ritorno dell’organico alla tavola degli elementi, specie quelli metallici.

È proprio in questa materialità irreligiosa e quieta (qui concordo con i critici che hanno accennato al silenzio dei suoi lavori) che Francesca Mita si adagia: è la sua strada. Una strada che sembra portare in un luogo preciso: il totale abbandono del figurativo, il proposito di tentare l’umanesimo intrinseco della materia pura.